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ECCO PERCHE’ NON FATE PIU’ LA SPESA AL MERCATO
Per qualche strano motivo, nonostante i miei genitori mi abbiamo sempre insegnato l’importanza di una corretta alimentazione non solo per il corpo, ma anche per il pianeta e la società, non sono mai andata a fare la spesa al mercato.
Non fraintendetemi, sono sempre andata nel negozietto biologico della mia città pronta a vendermi un rene e a sottostare a quello che la natura aveva da offrirmi in base alla stagione. Proprio per questo, la mia mancata esperienza al mercato non mi ha toccato più tanto, fino a quando non sono andata a fare una visita al mercato di Porta Palazzo, a Torino.
Sembra assurdo che una generazione come la nostra, la Gen Z, così attenta all’ambiente e al cambiamento climatico non faccia la spesa al mercato, che viene invece assalito da donne anziane con il carrello a fiori pronte a spingerti contro altre persone pur di prendere l’ultimo cavolfiore.
Mi sono chiesta perché e ho cercato delle risposte partendo dalla fonte di informazioni più vicina a me: me stessa.
Ammetto che la prima scusa che mi è venuta in mente è stata la pigrizia, la mancanza di spirito di avventura, la comodità di avere un supermercato sotto casa.
Mi sono vergognata, ma allo stesso tempo ho sentito di avvicinarmi ad una risoluzione ben più ampia e complessa. lo credo che la nostra società, abituata all’immediato, a dedicare attenzione ad una cosa per non più di quindici secondi, alla scelta senza limiti, veda il mercato come una perdita di tempo e soprattutto una limitazione. Il mercato offre quello che il principio della stagionalità impone, e quindi ci obbliga ad arrangiarci, a cambiare piani ed inventare piatti nuovi.
Ci costringe a utilizzare il nostro tempo per passeggiare, esaminare, chiedere e ascoltare.
Andare al mercato significa mettere in discussione le proprie abitudini, uscire dalla propria comfort-zone, e tutto per cosa?
Per la nostra salute, la tutela dell’ambiente e la promozione di un sistema alimentare a filiera corta che da il potere agli agricoltori e li rispetta. L’odore sgradevole di alcune bancarelle si può sopportare, ma l’indifferenza che guida scelte inconsapevoli no.

COME (NON) SCRIVERE UN ARTICOLO BANALE PER NATALE
L’idea per questo articolo mi è venuta mentre cercavo di capire che cosa scrivere in occasione delle feste. Infatti, ogni pagina di gastronomia che si rispetti sfodera per Natale ricette gustose da fare in cinque minuti per il pranzo che deve sfamare quattrocento parenti, idee regalo originali come frutta candita home-made o i barattoli con all’interno gli ingredienti per una determinata ricetta.
Ma soprattutto quello che mi fa sorridere sono le ricette di riutilizzo degli scarti del pandoro pubblicate ancora prima che inizi il periodo natalizio.
Di fronte a tutto questo, prendendo coscienza che qualsiasi idea non sarà mai unica e originale perché qualcuno ci avrà pensato, ho deciso di scrivere un articolo di petto, senza pensarci troppo sul Natale e su alcuni regali davvero unici.
Infatti, uno dei regali più belli è sicuramente quello di utilizzare i soldi per un ipotetico regalo per fornire un pasto caldo ai senzatetto della propria città, per finanziare regali per i bambini e le famiglie più bisognose, per fare una donazione ad un’organizzazione non-profit.
Sembra il classico articolo buonista che cerca di ricordare il vero significato del Natale in una società estremamente consumistica e capitalistica, ma è qui che vi sbagliate: non voglio fare la morale, anche perché quando, a quindici anni, mia sorella mi ha detto che invece di farmi un regalo avrebbe utilizzato quei soldi per fare un regalo ad una famiglia bisognosa, non l’ho presa benissimo.
La mia è semplicemente una riflessione da persona privilegiata, che ogni anno dice di non volere nulla per Natale, ma che puntualmente desidera qualcosa e lo ottiene addirittura senza chiederlo.
Sicuramente nessuno di noi può caricarsi sulle spalle il peso di un mondo profondamente ingiusto e squilibrato, ma ciascuno può utilizzare una piccola parte della sua fortuna per regalare un frammento della gioia natalizia a chi non può procurarselo da solo.
Che cosa centra questo con la gastronomia? Probabilmente poco penserete voi, ma anche qui vi smentirò.
Chi mai penserebbe al Natale senza associarlo ad un momento di convivialità seduti a tavola con i propri parenti? Nessuno.
Il cibo anche in questo caso può essere un veicolo di amore, giustizia e generosità. Offrire un pasto caldo è alla portata di tutti, è un gesto di umanità che non dovrebbe essere limitato alle feste, ma da qualche parte si dovrà pure cominciare.

HOW TO: TROVERE RISTORANTI INCLUSIVI
Da persona con esigenze alimentari specifiche e studente fuori sede, mi è capitato più volte di intrattenere conversazioni assurde al telefono per far capire che il parmigiano è senza glutine e che vegano non significa senza farina, nel tentativo disperato di prenotare un tavolo.
Proprio per questo motivo sento l’esigenza di condividere alcune strategie che metto in atto quando vado a mangiare fuori:
La prima cosa che faccio, e che ritengo estremamente utile, è cercare il posto su Tripadvisor e andare a vedere la sezione “diete speciali” che esplicita se il ristorante può soddisfare determinate necessità (come nel caso del senza glutine, vegetariano e vegano).
Vado a vedere il sito vero e proprio del ristorante per guardare il menü. Segnare gli allergeni è un segnale molto positivo, anche se non sufficiente, che testimonia una certa attenzione alla questione.
A questo punto chiamo il ristorante chiedendo più informazioni possibili, prima fra tutti se hanno la pasta senza glutine, requisito per me imprescindibile.
Detto questo, anche se sembrano cose banali, spesso vengono sottovalutate e rendono l’esperienza estremamente negativa. L’inclusione è un valore che si estende troppo poco al cibo e al soddisfacimento delle esigenze di ognuno.
Un appello agli amici di persone intolleranti o allergiche è di evitare di pensare in modo egoistico, perché spesso chi deve far valere le proprie necessità si sente già in difetto così e non serve calcare la mano.
Spero che in un futuro sempre più ristoratori si rendano conto che oltre alla questione etica e morale, che purtroppo conta poco, c’è un buon guadagno economico perché anche un solo membro del gruppo può far disdire una prenotazione.

REIS LE RADICI A CUI DOBBIAMP RITORNARE
Ho avuto l’opportunità di mangiare per ben due volte al ristorante “Reis – Cibo Libero di Montagna”, in una borgata sperduta e altrettanto magica chiamata “Chiot Martin”, nel vallone di Valmala.
La storia del proprietario, Juri Chiotti, ha dell’incredibile: un cuoco che decide di puntare alla perfezione raggiungendola attraverso il conseguimento della tanto desiderata stella Michelin, improvvisamente cambia vita con l’idea di proporre una cucina nuova, che lo renda felice.
Varcata la porta dell’ambiente tossico delle cucine stellate, Juri crea una realtà che si basa sull’unione uomo-natura in un rapporto di rispetto e tutela.
Mi piace dire che ogni dettaglio ed elemento del locale rispecchia uno stile di vita, una presa di posizione che si può definire politica.
L’idea di una cucina non convenzionale, lenta e che si fonda sui principi di buono, pulito e giusto è una grande innovazione. Juri con il suo orto e i suoi animali propone una cucina genuina sotto tutti i punti di vista. La sua è una battaglia silenziosa ma efficace contro un sistema insostenibile che distrugge l’ambiente, la cultura del cibo e la salute degli esseri viventi.
Il passato, in cui gli esseri umani si adattavano a ciò che la natura aveva da offrigli nel rispetto dei cicli biologici, è attualità nella realtà di “Reis”, che non a caso significa “Radici”.

TRA FILOSOFIA E CIBO, UN LIBRO DA NON PERDERE
Quando vado in libreria, oltre a fiondarmi nella sezione dedicata ai libri gialli, tento un timido approccio verso lo scaffale dedicato alla gastronomia rimanendo puntualmente delusa: solo ricettari keto, libri di pasticceria e guide su come utilizzare la friggitrice ad aria.
Senza nulla togliere alla friggitrice, ma la gastronomia è molto di più e, addirittura, penso che sia impossibile contenerla in un unico scompartimento.
E vi proverò il mio punto facendo riferimento ad un libro per me molto speciale, “i filosofi in cucina- critica della ragione dietetica” di Michel Onfray.
È stato il primo libro riguardo la gastronomia che io abbia mai letto. Questo scritto mostra in maniera lampante le connessioni tra i pensatori dei filosofi più famosi e le loro preferenze alimentari, facendo ruotare tutto attorno alla domanda: i filosofi che tutti conosciamo avrebbero occupato le pagine dei nostri libri di scuola se non avessero ascoltato la pancia?
Probabilmente no, e la genialità di questo scritto sta proprio qui, nella capacità dell’autore di svelare il valore filosofico del cibo che si può definire lo strumento attraverso il quale il nostro corpo si modifica e si mantiene in vita.
La dimensione corporale, spesso trascurata da molti filosofi in quanto simbolo della debolezza umana e del piacere effimero, e contrapposta alla dimensione intellettuale, che ambisce alla serenità, al sapere e, in alcuni casi, alla verità, è invece fondamentale nella formulazione di una teoria filosofica. Noi siamo fatti di carne e questa guida le nostre azioni, le nostre opinioni e credenze.
Ciò che mangiamo, e soprattutto ciò che non mangiamo, racconta molto di noi e di ciò in cui crediamo.
Descriverei la lettura di questo libro un gioco, un viaggio divertente tra le aragoste giganti che inseguono Sartre e il polpo crudo che segnerà la fine della vita di Diogene.

CHRISTIAN DIOR E LA SUA PASSIONE PER LA CUCINA FRANCESE
Pubblicato nel 1972 e ora disponibile nella versione digitale gratuita, il libro di ricette “La cuisine couse-main” racconta non solo la passione dello stilista francese Christian Dior per la gastronomia e la cucina del suo paese, ma anche, e soprattutto, della forte connessione che lega il cibo al mondo della moda.
Attraversata da grafiche estremamente curate, questa raccolta di piatti spazia dalla zuppa di cerfoglio, passando per l’omelette soufflé, per arrivare alla ricetta delle crepes e del gelato alla pera.
Una particolarità è l’attenzione per certi ingredienti come le varie tipologie di insalata che vengono raccontate e descritte nel loro sapore distintivo.
Nella prefazione, l’amico e chef Raymond Thulier, racconta della capacità di Christian Dior di scovare la bellezza non solo in tessuti, colori e accessori, ma anche negli ingredienti, nell’armonia e nel bilanciamento di un buon piatto.
Egli amava paragonare il suo lavoro a quello del cuoco perché “gli ingredienti che usiamo quando cuciniamo, sono nobili tanto quanto i materiali che si usano nell’alta moda”.
La sua ricerca della semplicità e dell’eleganza si rifletteva prontamente nelle sue preferenze alimentari: le ricette del libro non sono elaborate o complesse, ma soddisfacenti, in grado di saziare non solo lo stomaco, ma anche lo spirito.
Ora, il cibo è strumento, è arte pura nelle mani degli chef che si possono definire a tutti gli effetti stilisti del gusto in grado di creare su misura un’esperienza indimenticabile. Ci si può allora stupire che si paghi una cena in un ristorante stellato quanto una borsa firmata?

FESTIVAL E CIBO – QUANDO DUE MONDI SI INCONTRANO
Il festival di Sanremo ha messo in pausa la vita di tutti gli italiani, pronti a giudicare, ascoltare e commentare.
Da quando mi sono appassionata di gastronomia, mi sono sempre domandata quali possibili collegamenti vi potessero essere tra il mondo del cibo e quello della musica.
Se la nota insieme alla parola costituisce l’arma attraverso cui un musicista racconta storie, pensieri e paure, allo stesso modo il cibo diventa un potente mezzo per comunicare la propria identità e cultura. Inoltre, entrambi creano comunità, uniscono e accomunano.
E quale occasione migliore del Festival della canzone italiana per esplorare questa complessità?
Già durante l’edizione del 1969, Riccardo del Turco, con “che cos’hai messo nel caffè?” fonde i due mondi.
“ Cosa hai messo nel caffè che ho bevuto su da te? C’è qualche cosa di diverso adesso in me.” , canta raccontando il momento in cui si è innamorato di una donna attraverso la metafora del caffè. Infatti, questo alimento rimanda alla convivialità, al momento di pausa e relax che riunisce famiglie, colleghi e amici.
L’intimità e la vulnerabilità che il cantante prova di fronte alla donna che ama sono racchiuse in una tazzina. Anche Lucio Dalla con “Piazza Grande”, utilizza il pranzo come metafora sociale.
Dalla racconta la storia di un senza tetto, tra invisibilità e sacrificio, e canta: “Santi che pagano il mio pranzo non ce n’è Sulle panchine in Piazza Grande”. Il pranzo è emblema di condivisione, famiglia e affetto, e qui viene utilizzato per esprimere a pieno la solitudine che attanaglia il povero uomo.
Infine, Brunori Sas, nell’ “Albero delle noci”, in gara in questa edizione, tocca tematiche complesse legate alla paternità, alla famiglia e alla vecchiaia.
Sono le foglie dell’albero che rappresentano questi passaggi in modo delicato ed immediato: “Sono cresciute veloci le foglie sull’albero delle noci e nei tuoi occhi di mamma adesso splende una piccola fiamma”.
Negli ultimi anni, i cantanti in gara hanno adottato la tendenza di aprire bar, chioschi o gelaterie temporanee, dove servono cibo e incontrano i fan.
Insomma, il cibo si è fatto strada non solo per le vie di Sanremo, ma anche sul palco dell’Ariston, ribadendo con forza il suo potere comunicativo.